martedì 13 luglio 2010

PAROLE, PAROLE, PAROLE...


degli snodi strutturali nei sistemi educativi musicali europei
per un nuovo percorso formativo in italia


In un paese dove i bidelli di Deamicisiana memoria si trasformano in collaboratori scolastici, gli spazzini tanto cari al Calvino degli irresistibili racconti di Marcovaldo vengono promossi ad operatori ecologici e neppure gli infermieri scampano a questo lifting linguistico trasformandosi in manager delle professioni sanitarie, sembra strano dover richiamare alcuni termini che dovrebbero essere pane quotidiano per chi si occupa di educazione musicale.
Parole, definizioni che sembrano scontate sono spesso cancellate, evitate, derise; a molti sarà certamente capitato di sentirsi in imbarazzo quando ci viene richiesta per l’ennesima volta la nostra “vera” professione dopo aver chiaramente dichiarato: “Faccio il musicista” sollevando sguardi di pietoso compatimento: “Musicista? Ma se non ti ho mai visto in televisione!” Questa tra le varie risposte che ho ricevuto è la più ripetibile, ma non è stata l’unica: “Musicista? Ma se non ha neanche l’autoradio!” (una pattuglia di Carabinieri che mi aveva fermato dopo un concerto) “Musicista? Ok, ma per vivere cosa fa realmente?” (l’addetto all’anagrafe del mio comune che mi conosce da quando sono nato) “Musicista? Io ho un cugino che canta ai matrimoni…” (scontata la risposta: “Bisogna aver pazienza, nessuno è perfetto…”) Mi fermo qui ma potrei continuare a lungo.
Il primo termine da recuperare è appunto questo: musicista.
Una parola spesso equivocata (musicista uguale visibilità uguale successo uguale potere) che in Italia ha perso sia dignità (vedi gli aneddoti di cui sopra) che significato.
Occorre riappropriarsi con rinnovato orgoglio di questo aggettivo e praticarlo soprattutto come sostantivo: professione musicista o musicista di professione devono diventare categorie riconosciute e riconoscibili (abbiamo creato i tronisti, le veline, i paparazzi e dobbiamo rinunciare ai musicisti?) nonostante riforme, tagli e quant’altro si abbatte e si potrà abbattere in futuro.
Ma non è purtroppo l’unico: affondati da una mole cartacea spesso obsoleta e farraginosa che scoraggia chi osi andare alla ricerca di punti fermi, di costanti pedagogiche comparabili o semplicemente di obiettivi interdisciplinari all’interno delle programmazioni e dei piani di studio del sistema educativo musicale nostrano sembra necessario procedere come i salmoni: risalire dagli effetti e ripercorrere a ritroso tutto il percorso che ha portato i musicisti italici ad avere sempre più spesso una formazione musicale lacunosa o comunque decisamente migliorabile. Dov’è che si sono persi di vista quei punti fermi, quegli obiettivi irrinunciabili, dove sono finite le parole che dovremmo sempre aver presenti durante la formazione musicale?
Analizzando in sintesi i piani di studio tedeschi, belgi e spagnoli è evidente che occorre recuperare la dimensione dell’ente formativo per eccellenza, il conservatorio, quale comunità educante.
Comunità intesa come gruppo di persone che condividono regole, valori, responsabilità, e che stabiliscono una rete di relazioni, una vita sociale dalla quale nessun individuo è avulso, trascurato. Educante perché ha stabilito un chiaro progetto educativo e si fa carico di chi è in difficoltà, sostenendolo ed aiutandolo a sviluppare il suo potenziale educativo ma al tempo stesso valorizza chi è dotato offrendogli continue occasioni per crescere e completare la sua formazione. Parlando di condivisione vorrei far rilevare il valore formativo dell’esperienza del fare musica assieme agli allievi, in formazioni miste di docenti e studenti. Come ho potuto constatare in alcune brevi esperienze all’estero, questa pratica è altamente gratificante sul piano umano e relazionale nonché estremamente utile sul piano formativo in quanto l’allievo si sente valorizzato e considerato come elemento importante in un sistema che produce eventi artistici significativi.
Una metodologia ancora poco praticata ma che sta dando ottimi risultati è quella della lezione collettiva di strumento, dove allievi di diverso livello ma uniti dalla passione per lo stesso strumento si trovano a far musica assieme con diverse modalità: a volte uno studente suona e gli altri fanno le proprie osservazioni, a volte si legge assieme un nuovo brano e si lavora a livello di analisi e successive variazioni, altre volte si fanno composizioni estemporanee seguendo le indicazioni dell’insegnante, tutto ciò in un clima di grande serenità dovuto alla condivisione di un’esperienza dove ognuno da al gruppo il proprio apporto personale secondo le sue capacità.
In una comunità educante è scontato prevedere una formazione musicale globale dell’individuo che offra gli strumenti per decodificare la realtà musicale in tutti i suoi molteplici aspetti e linguaggi.
Qui il discorso diventa più articolato: anche nei conservatori italiani si studiano altre “materie” oltre allo strumento: teoria musicale, armonia, storia della musica…ma possiamo sinceramente dire che tale formazione sia sufficiente e soprattutto spendibile a livello europeo? Certamente no, basta confrontare l’articolazione dei corsi di teoria musicale (altrove definiti “linguaggio musicale” oppure “formazione dell’orecchio musicale”) per rendersi conto che il confronto è spietatamente a nostro svantaggio, e non solo esclusivamente nel campo del puro solfeggio ma anche in tutti quegli aspetti dell’alfabetizzazione musicale: dalla ritmica all’educazione dell’orecchio, dall’analisi all’improvvisazione, dalla lettura a prima vista al trasporto, dall’accompagnamento alla conoscenza del repertorio.
Chiediamoci per un attimo se i cosiddetti “corsi complementari” di storia della musica o di armonia siano ancora difendibili sul piano della formazione globale del musicista o se non andrebbero rivisti, potenziati, e, soprattutto, legati ad esperienze concrete all’interno della comunità educante.
Un sistema musicale comunitario non può non prevedere una pluralità di indirizzi e specializzazioni volti a soddisfare le molteplici realtà della pratica musicale contemporanea. Ai nostri giorni non basta più essere un “musicista”, occorre approfondire il proprio percorso rendendolo il più affine alle proprie capacità e alle proprie esigenze: da qui un molteplicità di indirizzi, già esistente in molte realtà straniere: dal concertismo alla musica da camera, dalla didattica dello strumento all’accompagnamento.
Tale specializzazione non deve però andare a scapito di una profonda conoscenza globale dello strumento e della più ampia pratica dei repertori delle varie epoche e dei diversi stili, in tal senso molti istituti hanno aperto le porte alla musica jazz e alla musica contemporanea, con formazioni diversificate che permettono di sviluppare sul piano pratico abilità troppo spesso emarginate: la lettura a prima vista, il trasporto, l’improvvisazione.
Nella mia esperienza all’estero ho assistito a lezioni di strumento non vincolate entro gli stretti limiti dei sessanta minuti, trascorsi i quali, indipendentemente da qualsiasi necessità didattica, occorreva interrompere il lavoro. Ho assistito ad una lezione durata oltre due ore al termine della quale insegnante ed allieva erano entrambi stremati ma consapevoli di aver sia ricevuto che dato, stabilendo una relazione educativa bidirezionale che la lasciava entrambi soddisfatti.
Volendo proseguire in quest’ottica le riforme al sistema italiano appaiono profonde e non ulteriormente procrastinabili per poter fornire agli studenti un bagaglio culturale funzionale e spendibile a livello europeo, mi chiedo se si prenderà in considerazione l’ipotesi di una individualizzazione dei piani di studio ossia la possibilità di crearsi, con il supporto di un tutor, un proprio programma di autori, stili, repertori e di poter gestire le varie tappe del proprio percorso senza vincoli legati alla successione dei corsi da seguire (non puoi studiare questo se prima non fai il tale esame). L’individualizzazione dei percorsi formativi non deve essere intesa come un adeguamento verso il basso del livello di formazione degli studenti, ma può altresì aprire le porte a nuove potenzialità, motivando chi si avvicina allo strumento rendendolo consapevole che esiste la possibilità di rendere il suo rapporto con la musica qualcosa di unico e irripetibile.
Vorrei concludere queste brevi riflessioni con un ricordo che mi è particolarmente caro, ed è l’ultima parola che dovremmo recuperare: nei conservatori stranieri ho incontrato molti ragazzi e ragazze volenterosi, spesso impegnati in sessioni di studio estenuanti, lezioni impegnative e magari, la sera, concerti o performance che spaziavano dal jazz alla musica lirica. Non ho mai sentito una parola di sconforto o di sofferenza, ho visto una grande serenità…credo sia una condizione che tutti, insegnanti e studenti, dovremmo tener sempre presente nella nostra pratica musicale quotidiana.

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